Coesione, cultura, innovazione: la forza gentile dell’economia italiana. Intervista a Domenico Sturabotti
In un tempo in cui l'agenda globale sembra ripiegarsi su interessi immediati e logiche di mercato spesso miopi, vi sono ancora visioni capaci di articolare un pensiero economico e sociale orientato al lungo periodo, fondato sulla sostenibilità, sulla coesione e sulla cultura. È questo l’orizzonte in cui si colloca la Fondazione Symbola, che da vent’anni elabora riflessioni e promuove pratiche orientate a un’economia che non rinuncia alla sua dimensione umana e relazionale. Domenico Sturabotti, direttore della Fondazione, restituisce con chiarezza il senso di una traiettoria che affonda le radici in ciò che Symbola chiama Soft Economy: un modello alternativo a quello predatorio e distruttivo dell’Hard Economy, che mette al centro le comunità, i territori, i saperi diffusi, e concepisce la cultura non come orpello, ma come sostanza viva della competitività.
In un contesto economico segnato da ritorni ideologici a un liberismo sregolato – in cui i diritti, le tutele ambientali e le diversità vengono spesso percepiti come ostacoli alla crescita – Symbola rilancia una visione in controtendenza, ma profondamente radicata nella realtà italiana. La cultura, intesa non solo come patrimonio identitario ma come attitudine creativa e progettuale, si rivela un materiale produttivo vero e proprio: è ciò che trasforma un mobile in racconto, un vino in territorio, un oggetto d’uso in segno simbolico. E questa non è una pura teoria: i numeri mostrano che l’economia italiana trae forza proprio da quella relazione virtuosa tra manifattura e immaginario, tra tecnica e bellezza.
La cultura, dunque, non è un orizzonte da confinare nel superfluo o nel tempo libero, bensì un fattore strategico che permea l’intero sistema economico. Essa genera direttamente un valore economico significativo – oltre 95 miliardi di euro – e, ancor più, innerva altri settori, diventando moltiplicatore di competitività. Tuttavia, ciò che ancora manca è una piena consapevolezza collettiva del ruolo che la cultura gioca nei processi produttivi e nel posizionamento internazionale del Made in Italy.
Alla cultura si affianca, nel paradigma proposto da Symbola, un’idea di innovazione che sfugge alle metriche tradizionali. L’Italia, spesso poco rappresentata nelle classifiche internazionali basate su brevetti, si dimostra invece fertile terreno di innovazione diffusa, quotidiana, artigianale, incarnata nella capacità di risolvere problemi concreti e di adattarsi a contesti sfavorevoli. Molte soluzioni che oggi si affermano nel mercato globale – dalla decarbonizzazione della ceramica alla produzione di motori elettrici privi di terre rare – nascono proprio da questa tensione creativa tra limite e ingegno. Si tratta di un’innovazione non spettacolare ma sostanziale, e tanto più preziosa perché generata da un tessuto imprenditoriale disseminato e collaborativo.
Il territorio, in questa visione, non è un retaggio da superare in nome della globalizzazione, ma un giacimento di autenticità, coesione e resilienza. Le imprese radicate nel proprio contesto, capaci di costruire relazioni significative con i lavoratori, i fornitori, le amministrazioni locali e i consumatori, mostrano una maggiore capacità di affrontare le crisi e di reinventarsi. È accaduto durante la pandemia, ma anche in tutte quelle transizioni industriali dove la coesione sociale ha saputo riorganizzare competenze e orientarle verso nuove filiere, come accade oggi nel passaggio dall’automotive all’aerospazio.
In un tempo che enfatizza l’individualismo digitale e l’illusione della disintermediazione, emerge invece con forza il bisogno di mediazioni intelligenti, capaci di accompagnare le trasformazioni. Le associazioni di categoria, i consorzi, le reti di impresa, le accademie tecniche post-diploma – tutte forme di alleanza e collaborazione – rappresentano non un appesantimento burocratico, ma una condizione abilitante per innovare, crescere e includere. L’intermediazione, quando è orientata a generare accesso, scala e strumenti condivisi, diventa motore della trasformazione.
La cultura, infine, deve saper fare ciò che troppo spesso le è stato negato: indicare un approdo. Come Hollywood ha saputo dare forma all’"American Dream", così l’Europa, attraverso progetti come il New European Bauhaus, avrebbe dovuto rendere visibile l’orizzonte della transizione ecologica, offrire narrazioni e immagini capaci di motivare il cambiamento e renderlo desiderabile. Perché senza un’immagine di futuro, anche la più giusta delle transizioni rischia di restare priva di slancio.
La Soft Economy, lungi dall’essere debole o marginale, si presenta così come un’agenda forte, fondata su dati, storie, esperienze, numeri. È un'economia che si costruisce sulle relazioni, sull’empatia, sull’intelligenza diffusa. E proprio per questo può rappresentare una risposta concreta e potente alla complessità del presente. In un mondo che sembra aver smarrito la direzione, essa ricorda che un'altra economia è non solo possibile, ma già in atto. E che vale la pena abitarla, coltivarla, raccontarla.
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Chi è Domenico Sturabotti? Architetto. Dal 2004 è direttore della Fondazione Symbola, dove studia il rapporto tra qualità e competitività nell’economia italiana. È curatore di numerose ricerche sul Made in Italy, sulla relazione tra green economy, design e manifattura e sul rapporto tra dinamiche coesive e competitività. Autore di articoli e studi sull’economia della cultura e delle industrie culturali.
Articolo a cura di Innovazione Sociale
Videointervista a cura di Antonella Tagliabue, UN-GURU
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